LA MAMMA
2019

La Mamma

Da mafia rurale a multinazionale del crimine, viaggio attraverso luoghi e simboli della ‘ndrangheta. La mafia calabrese è ormai riconosciuta unanimemente come una delle più potenti organizzazioni criminali mondiali. Sono trascorsi almeno vent’anni da quando la ‘ndrangheta, da mafia rurale, si è trasformata in una holding internazionale del crimine, eppure questa organizzazione continua a conservare elementi che la contraddistinguono rispetto alle altre mafie del Meridione d’Italia, costituendone in alcuni casi il punto di forza. Questo reportage tenta di ripercorrere, attraverso luoghi, suggestioni e simboli, l’evoluzione storica e antropologica del fenomeno, non rinunciando però ad indagare le forme attraverso cui tuttora la subcultura ‘ndranghetista si manifesta in determinati contesti sociali, fino a diventarne quasi un tratto identitario distintivo. Dalla stagione dei sequestri e delle trame golpiste, fino all’era del dominio sui traffici mondiali di cocaina, l’evoluzione della ‘ndrangheta è caratterizzata dalla conservazione di determinati codici di comportamento, simboli, rituali, che vengono riprodotti e anche adattati alle esigenze delle moderne frontiere dei clan. Per comprenderne la complessità è necessario quindi indagare nei contesti più inaccessibili, nelle zone interne della Calabria, nei luoghi in cui si sono consumate latitanze e vendette, agguati e summit storici. E ancora, provare a raccontare per immagini le ferite lasciate dalle faide storiche, le atrocità della lupara bianca, la centralità delle tradizioni e dei luoghi della religiosità popolare, il ruolo delle donne di ‘ndrangheta, gli elementi antropologici e la creazione di un patrimonio culturale della mafia, l’evoluzione degli interessi imprenditoriali, la penetrazione nelle istituzioni, lo sfruttamento selvaggio delle risorse del territorio. Tutto ciò attraverso un occhio che ha approfondito e studiato questo contesto, che ha osservato e documentato , senza pregiudizio né compiacimento.

Testo: Sergio Pelaia, giornalista
Foto: Salvatore Federico, fotoreporter
Didascalie: Salvatore Federico e Sergio Pelaia


Vallata dello Stilaro, Bivongi (Reggio Calabria)
In determinate zone della Calabria, i boschi rappresentano storicamente la risorsa principale di cui si è alimentata l’economia del territorio. Si tratta di un settore su cui le ‘ndrine mantengono tuttora, e in alcuni casi almeno fin dagli anni ‘50, un dominio asfissiante, tant’è che per il controllo dei territori montani si sono scatenate faide cruente e infinite.


Guardavalle (Catanzaro)
Nelle faide che hanno segnato la storia della ‘ndrangheta, la montagna è stata una presenza costante. Dagli storici summit in Aspromonte alle faide ventennali delle Serre, i monti sospesi nel tempo in cui la ‘ndrangheta ha ben salde le radici sono sempre stati anche un rifugio, un nascondiglio discreto, ma anche il teatro naturale di decine e decine di omicidi efferati. Consumati quasi sempre alle prime luci del mattino, nel silenzio dei boschi.


Bivongi (Reggio Calabria)
Nonostante negli anni gli interessi delle ‘ndrine della montagna si siano estesi anche sulle lucrose attività commerciali delle due coste, il predominio sulle attività boschive continua a rappresentare una priorità per affermare la supremazia sul territorio “madre”. Così i feudi delle cosche dell’entroterra, nel territorio montano al confine tra le province di Vibo, Catanzaro e Reggio, sono divenuti teatro – prima negli anni ‘80 e poi alla fine del primo decennio del 2000 – di due sanguinose “faide dei boschi”. Guerre durate anni, durante le quali non sono mancati omicidi eccellenti di “mammasantissima” molto temuti, faide familiari.


Alle donne di ‘ndrangheta spetta il compito di allevare i figli e, dunque, di “educarli” ai codici di comportamento mafiosi. Sono depositarie di saperi e usanze. Sulla figura femminile si regge tutto un apparato simbolico – che si manifesta nell’abbigliamento, negli atteggiamenti pubblici e in ogni occasione in cui ci si fa portatrici dell’onore della famiglia – attraverso cui la subcultura ‘ndranghetista mantiene uno stretto legame con il territorio e con i costumi popolari.
Quella calabrese, infatti, è probabilmente l’unica mafia del Sud Italia che, contrariamente a quanto si possa pensare, consente alle donne l’ingresso nella “società” e prevede anche la possibilità che possano ottenere il “grado” di “sorella d’umiltà”.
Anche nel “lessico” della ‘ndrangheta vi sono elementi che rimandano alla figura femminile: il termine “mamma”, ad esempio, spesso è usato dagli affiliati per riferirsi al boss, o ancora viene adoperato per indicare i luoghi (come la Locride, “la mamma della ‘ndrangheta”) che rappresentano le origini, le radici del fenomeno, cui gli affiliati devono sempre e comunque fare riferimento.


Rosarno, Piana di Gioia Tauro (Reggio Calabria)
Le potenti famiglie della zona, come i Piromalli, mantengono il controllo totale dell’economia locale. E quello della produzione degli agrumi è un settore in cui, più degli altri, lo strapotere della ‘ndrangheta si manifesta ad ogni livello, dalla produzione fino al confezionamento e alla distribuzione del prodotto. Un settore, tra l’altro, alimentato dalle multinazionali delle bibite che non rinunciano a trarre profitto da tale situazione. Anche dietro lo sfruttamento del lavoro, subìto per lo più dai braccianti africani che durante la stagione del raccolto vivono in baracche e casolari abbandonati, c’è la longa manus dei clan.


Località Baronello, Castellace di Oppido Mamertina
Nel maggio 2005 alla cooperativa “Valle del Marro-Libera Terra” viene assegnato un uliveto di 11 ettari, confiscato alla famiglia Mammoliti di Castellace. E’ stata la prima assegnazione di un bene confiscato in Calabria. Subiscono il primo attentato nel 2011, un vasto incendio distrugge oltre 500 piante secolari. Nonostante gli affari più lucrosi delle ‘ndrine siano altri, la prepotenza mafiosa non rinuncia a manifestarsi anche simbolicamente, facendo sentire come sulle attività primarie legate alla terra resista ancora la volontà di predominio totale. Una pervicacia che oggi si riversa sulle tante cooperative che lavorano i terreni confiscati ai clan.


Località Serra di li Juncari, Montalto d’Aspromonte (Reggio Calabria)
Invece che a Polsi, come da tradizione, nel 1969 il summit annuale della ‘ndrangheta reggina si tenne a Montalto d’Aspromonte. Era il 26 ottobre.
Il giorno prima a Reggio c’era stato il principe golpista Junio Valerio Borghese. La ‘ndrangheta era entrata in contatto con il mondo dell’eversione nera. Un’ operazione di polizia interruppe oltre un centinaio di persone riunite per discutere, secondo alcuni, dell’unificazione della ‘ndrangheta a livello provinciale e dell’opportunità di collaborare con la destra eversiva e con settori deviati dello Stato. La ‘ndrangheta si stava affacciando alla stagione dei sequestri, quindi al salto di qualità economico-imprenditoriale.
Le ‘ndrine, con il potere acquisito in quel periodo storico, divennero classe dirigente.


La dimensione agro-pastorale è, com’è noto, tra le caratteristiche storicamente fondanti della ‘ndrangheta. Proprio in questa dimensione si è sviluppato il forte legame con la terra intesa come risorsa ma anche come patrimonio da conquistare e proteggere a ogni costo. Ancora oggi capitano spesso fatti di sangue dovuti a liti per pascoli abusivi e a vessazioni legate ai terreni. Episodi solo apparentemente ancorati a retaggi ancestrali che, invece, sono chiara espressione della mentalità mafiosa. Anche di recente, tra l’altro, omicidi riconducibili a “questioni di terra” hanno rappresentato la scintilla che ha scatenato vere e proprie faide di ‘ndrangheta.


San Luca (Reggio Calabria)
Il brigadiere dei carabinieri Carmine Tripodi, originario del Salernitano, fu inviato nella Locride, a Bianco, nel 1980, quando aveva appena 20 anni. Cinque anni dopo venne ucciso in un agguato di ‘ndrangheta tesogli sulla strada provinciale che da San Luca porta alla statale 106 jonica. Tripodi, in quegli anni, aveva portato avanti diverse delicate indagini sui tantissimi sequestri di persona avvenuti all’epoca nella Locride. Il commando che lo uccise era composto presumibilmente da tre persone che gli spararono contro diversi colpi di fucile. L’ omicidio di Tripodi rimase impunito, dopo averlo ucciso i killer urinarono sul suo corpo per spregio. La lapide in sua memoria nel corso degli anni seguenti fu ripetutamente danneggiata.


Località Zervò, Aspromonte (Reggio Calabria)
Il “cristo dei sequestrati”, il Cristo di Zervò, che recava anche sulla stessa statua i segni di un colpo di fucile, sembra quasi vigilare sul luogo maggiormente carico di significati della stagione dei sequestri di ‘ndrangheta. Qui avveniva spesso la consegna dell’ostaggio e del riscatto. E qui si incatenò per protesta “mamma coraggio”, la madre di Cesare Casella, vittima di uno dei sequestri che in quegli anni suscitò maggiore scalpore.


Costa Jonica, SS 106, Locride (Reggio Calabria)
L’abusivismo edilizio è una delle piaghe storiche della Calabria, un fenomeno strettamente connesso al controllo dei clan mafiosi sul ciclo del cemento, che si manifesta nel condizionamento degli appalti, nel movimento terra, nella fornitura dei materiali. Tutto è legato a doppio filo, alle cave fuorilegge, alla corruzione e alle speculazioni immobiliari. L’abusivismo costituisce una ferita mortale per territori che, invece, potrebbero godere di paesaggi mozzafiato e meraviglie naturali, ma d’altro canto trova terreno fertile nelle connessioni sempre più strette tra ‘ndrangheta, imprenditoria e pubblica amministrazione.


Quella delle vacche sacre è un’usanza che risale ormai a molti decenni addietro, ma che resiste tuttora conservando il suo valore simbolico. I bovini che pascolano liberi sull’Aspromonte, sulle Serre, sullo Zomaro, nella Piana, incarnano ancora il legame della ‘ndrangheta con la sua origine agro-pastorale. Nel 2005, un oculista dell’ospedale di Locri, Fortunato La Rosa, fu ammazzato proprio perché, stabilirono le indagini, aveva ripetutamente allontanato decine di vacche sacre dai suoi possedimenti di campagna.


Monte Lacina, Brognaturo (Vibo Valentia)
Il territorio calabrese, dalle coste all’entroterra, è sfregiato da centinaia di opere pubbliche incompiute. Si tratta di un fenomeno su cui le ‘ndrine hanno costruito una parte considerevole delle loro fortune finanziarie. I finanziamenti pubblici milionari destinati ad opere in alcuni casi inutili sono stati fagocitati dalla ‘ndrangheta, che ha sempre trovato terreno fertile in larghi settori dell’imprenditoria e della pubblica amministrazione che costituiscono, di fatto, la borghesia mafiosa della Calabria. Una zona grigia che ha prosperato assieme alle cosche sugli scheletri decadenti che incombono sui paesaggi della regione.


Canolo, Aspromonte (Reggio Calabria)
Per reagire ai sequestri di persona che – negli anni in cui la televisione diventava il medium di massa per eccellenza – suscitarono scalpore nell’opinione pubblica nazionale, lo Stato mise in campo tutta la sua forza per reagire alla protervia dei clan. I piani dell’Aspromonte furono letteralmente militarizzati, con interi reparti dell’esercito e delle forze dell’ordine che arrivarono fino in montagna a piazzare i loro accampamenti. Ma su quelle montagne, ieri come oggi, lo Stato non è mai riuscito a imporre la sua legge.


Catanzaro
I bambini che nascono e crescono nei quartieri rom di Catanzaro costituiscono un prolifico bacino di manovalanza per i clan. In queste zone è altissima la percentuale di dispersione scolastica, così come è molto diffusa la microcriminalità giovanile. I ragazzini hanno facile accesso alle armi, che considerano fin da piccoli come strumento necessario per farsi strada nelle leve criminali della città, e alla droga. E già da minorenni partecipano attivamente agli affari del clan guadagnandosi “sul campo” la fiducia dei boss.


Platì (Reggio Calabria)
I carabinieri dello squadrone eliportato “Cacciatori di Calabria” hanno ormai sviluppato, in quasi 30 anni di esperienza sul territorio, la capacità di scovare gli ‘ndranghetisti latitanti dentro a bunker realizzati in mezzo alle montagne dell’Aspromonte. Si tratta del reparto speciale che compie le operazioni più difficili e pericolose, come quelle che hanno portato a scoprire come a Platì, un paese di quasi 4000 abitanti, esistesse di fatto un altro paese sotterraneo fatto di cunicoli e bunker dove alcuni tra i boss più temuti della Locride hanno trascorso la loro latitanza.


La produzione di marijuana è per i clan un business “fatto in casa”, che segue rotte diverse da quello, consolidato su scala internazionale, della cocaina. In alcune vaste aree della Calabria, in particolare nel Reggino e nel Vibonese, le coltivazioni di cannabis vengono messe in piedi di anno in anno in territori sempre diversi, spesso inaccessibili, e finiscono per rappresentare una proficua fonte di guadagno per i clan, che controllano ogni fase del traffico, dalla produzione all’esportazione. Pur essendo capaci di affari assai più lucrosi, le ‘ndrine non rinunciano agli introiti, comunque milionari, derivanti dalla coltivazione di marijuana. Migliaia di piante vengono sequestrate, ogni anno, nel periodo che va da maggio a ottobre, e si tratta di una minima parte di quelle che vengono prodotte sul territorio calabrese, che in questo campo primeggia in Europa.


Gioia Tauro (Reggio Calabria)
E’ ormai accertato come il porto di Gioia Tauro sia uno snodo centrale per i traffici internazionali di droga, grazie alla capacità della ‘ndrangheta di controllare il territorio e gestire direttamente i rapporti con i cartelli dei narcos sudamericani e con movimenti come le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia). La ‘ndrangheta è oggi leader mondiale incontrastata nell’importazione di cocaina, e lo scalo della Piana rappresenta la principale porta d’ingresso della droga in Europa. Un ruolo di primo piano nel controllo dei grandi traffici di cocaina assumono potenti clan come i Pesce di Rosarno, i Mancuso di Limbadi (Vibo), gli Alvaro di Sinopoli (Reggio), gli Aquino e i Coluccio (Gioiosa Ionica). Nonostante le operazioni internazionali di polizia e i sequestri di centinaia di tonnellate di cocaina, per lo più occultata nei container a bordo delle navi mercantili, questo continua ad essere il settore più lucroso per le ‘ndrine.


Gioia Tauro (Reggio Calabria)
Nel pomeriggio del 22 luglio 1970 nei pressi della stazione ferroviaria di Gioia Tauro si verificò il deragliamento del treno Freccia del Sud che da Palermo sarebbe dovuto arrivare a Torino. Morirono sei persone che si stavano recando in pellegrinaggio a Lourdes e altre 70 rimasero ferite. Nell’immediatezza si pensò a un cedimento strutturale del carrello del treno, ma poi indagini e processi avrebbero accertato che si trattò di un vero e proprio attentato dinamitardo da collocarsi nella strategia che gruppi della destra eversiva, venuti in contatto con la ‘ndrangheta e con pezzi dello Stato, misero in atto nell’ambito dei moti dei “boia chi molla” di Reggio Calabria.


Montecucco, Simbario (Vibo Valentia)
La Trasversale delle Serre, una superstrada ideata 40 anni fa e ancora non completata che dovrebbe collegare l’entroterra montano vibonese alle due coste, rappresenta una delle eterne incompiute calabresi. Si tratta di opere pubbliche avviate con appalti milionari i cui lavori durano molti anni e quasi mai vengono portati a compimento. Queste opere hanno sempre rappresentato per la ‘ndrangheta una proficua fonte di guadagno illecito, e non è un caso che la loro realizzazione sia spesso scandita da innumerevoli intimidazioni. Nel caso della Trasversale delle Serre le intimidazioni sono state così pressanti da indurre lo Stato a intervenire inviando l’Esercito sui cantieri, e in alcuni casi le indagini hanno addirittura rivelato come i referenti di grosse aziende fossero totalmente asserviti ai desiderata dei clan locali.


Polsi, San Luca (Reggio Calabria)
Il ballo tradizionale mantiene una stretta connessione con la teatralità tipica dei “cerimoniali” ‘ndranghetisti. Attraverso il ballo le ‘ndrine, specie nel corso delle feste religiose, veicolano all’esterno il loro potere che si traduce anche nel controllo dei momenti pubblici maggiormente sentiti dalle popolazioni locali. Il “sonu a ballu” è una danza che prevede ci siano solo due danzatori all’interno della “rota”, un cerchio chiuso formato dai presenti e diretto dal “mastru ‘i ballu” che, di volta in volta, stabilisce chi entra e chi esce dalla “rota”. «La principale preoccupazione della ‘ndrangheta contemporanea nel ballo in piazza – scrive Ettore Castagna in “Sangue e onore in digitale” – parrebbe quella di celebrarsi, compiacersi nella propria vicenda gerarchica, stabilire la sua proprietà privata della “rota”, mettere in evidenza il proprio potere assoluto che utilizza il simbolico ma va ben oltre il simbolico stesso».


Quella delle intimidazioni è una prassi consolidata che la ‘ndrangheta ha sempre usato per veicolare messaggi inequivocabili e dalla forte carica simbolica. Si tratta di fenomeni intrinseci ai codici di comportamento mafiosi, che sono rimasti immutati anche quando i clan hanno fatto il salto di qualità politico-imprenditoriale. Una testa di capretto ancora sanguinante, un bossolo di proiettile, una tanica di benzina, un volatile impiccato: gli avvertimenti assumono di volta in volta, a seconda dei contesti e dei macabri messaggi da veicolare, forme ed espressioni diverse, che però “parlano” sempre un linguaggio che risulta subito ben chiaro ai destinatari.


L’iconografia cattolica ha sempre rappresentato, e rappresenta tuttora, un elemento fondamentale dell’immaginario simbolico delle cosche. Si tratta di un legame forte e carico di contraddizioni, che però non riguarda solo le rappresentazioni religiose popolari pubbliche, ma anche un contesto in qualche modo intimo, quasi nascosto ma sempre presente nell’ambito privato degli uomini di ‘ndrangheta.


Le vittime della lupara bianca sono i desaparecidos calabresi. Per lo più giovani, in molti casi hanno pagato con la vita una scelta “sbagliata”, una relazione pericolosa, un gesto avventato, un affronto considerato intollerabile nei codici di comportamento ‘ndranghetisti. Solo nella provincia di Vibo Valentia si sono verificati più di 40 casi negli ultimi 20 anni.

“Un omicidio di ‘ndrangheta – sostiene Nicola Gratteri, procuratore aggiunto alla Dda di Reggio Calabria – lo puoi risolvere soltanto nelle prime 24-48 ore. Altrimenti è impossibile. Se sei fortunato, se ne riparla dopo dieci anni, se salta fuori qualche pentito, altrimenti niente”.


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